IL PRETORE
   Ha pronunciato la seguente ordinanza nel  procedimento  penale  nr.
 2463/95, imputati Maffei Guerrino, Colombo Pierluigi, Dapoto Nicola.
   Agli  attuali  imputati  e'  stata  contestata  la  contravvenzione
 all'art.   707 c.p., perche', essendo  stati  gia'    condannati  per
 delitti determinati da fini di lucro, venivano colti in possesso, non
 giustificato, di attrezzi a  forzare serrature.
   Gli  stessi imputati hanno sollevato questione di costituzionalita'
 della norma in esame, lamentandone il contrasto con gli artt. 3 e  27
 della Costituzione.
    Preso  atto  anche  sotto il profilo della rilevanza che del fatto
 materiale riportato in imputazione vi e' stata conferma  in  sede  di
 istruttoria dibattimentale.
   Rilevato  che  la  norma in esame e' gia' stata oggetto di numerose
 ordinanze  di  rimessione  alla  Corte  costituzionale  (fra  cui  le
 ordinanze  1  giugno  1995,  20  settembre  1995 e 9 ottobre 1995 dal
 pretore di Milano, pubblicate nella  Gazzetta Ufficiale numeri 1, 4 e
 5 del 1996) alle motivazioni  delle  quali  questo  giudice  aderisce
 integralmente.
   In  diritto  e' ben noto quali e quanti problemi sia interpretativi
 sia di costituzionalita' abbia dato  luogo  la  norma  in  questione,
 sottoposta  a fortissime critiche dottrinali (che hanno trovato larga
 eco soprattutto nella giurisprudenza di  merito)  per  la  natura  di
 reato  di  "sospetto",  per  il  correlativo  preponderante e anomalo
 rilievo che  assume  lo  status  di  pregiudicato;  per  l'inversione
 dell'onere della prova; per la sproporzione della pena.
    Proprio  sotto  quest'ultimo  profilo  pare  al  giudicante che il
 minimo edittale dell'art. 707  determini  conseguenze  paradossali  e
 contraddizioni  talmente  stridenti  da determinare nella persistente
 inerzia del legislatore dubbi di compatibilita' con  la  Costituzione
 non  eludibili  con  interpretazioni "adeguatrici" dal momento che se
 anche il giudice ha una discrezionalita' -  fortemente  esaltata  con
 riferimento al reato de quo sin dal 1975 della Corte costituzionale -
 che  si  estende  "previamente  al giudizio sull'esistenza stessa del
 reato" e cosi' "essendo a lui attribuito  il  piu'  largo  potere  in
 ordine  alle cause generali di giustificazione (i cosiddetti elementi
 negativi del reato) ... non puo' negarsi che rientri nel  sistema  la
 sussunzione   ad   elemento   oppure   a   condizione  della  mancata
 giustificazione  del  possesso  di  determinati  oggetti"  (cosi'  si
 esprimeva  la  sentenza  n.  236/1975  della  Corte  costituzionale),
 nessuna discrezionalita' possiede invero, il  giudice  di  fronte  al
 limite  edittale  della  pena (fatta salva la sola applicazione delle
 attenuanti  generiche,  che  non  sposta  comunque  i  termini  della
 questione),  che  nel  minimo  l'art.  707  stabilisce in mesi sei di
 arresto.
   Trattasi di una "soglia" particolarmente alta,  e  rapportata  alla
 previsione  generale  dell'art.  35  c.p.  ("La  pena dell'arresto si
 estende da  cinque  giorni  ..."),  sia  alle  altre  contravvenzioni
 concernenti  la  prevenzione di delitti contro il patrimonio (cfr. ad
 es. il minimo edittale di tre mesi dell'art. 708 c.p., che ha  comune
 presupposto  soggettivo),  sia  ancora  al  piu' generale trattamento
 sanzionatorio  dei  delitti  contro  il  patrimonio,  dove  il  furto
 semplice  e' punito con minimo di giorni quindici di pena detentiva e
 la stessa  pena,  per  intervento  del  legislatore  ormai  piu'  che
 ultraventennale  (legge  n.  220  del  1984)  e'  possibile  irrogare
 attraverso  l'equivalenza  tra  attenuanti  generiche  e   aggravanti
 dell'art. 625 anche quando ricorrano tali aggravanti.
    Se   il  sistema  poteva  avere  una  sua  coerenza  (naturalmente
 opinabile dal punto di vista delle scelte di politica  criminale,  di
 dura  e  drastica  repressione  prima  della  riforma  del  1974, non
 altrettanto puo' dirsi per la situazione vigente, in cui un  semplice
 atto preparatorio, in se' altrimenti non punibile, viene sottoposto a
 sanzione  detentiva  decisamente  pesante,  spesso  molto maggiore di
 quella che in concreto e' normalmente irrogata nel caso di inizio  di
 esecuzione  del furto:   si pensi, ad es. (per fare un caso di cui si
 e' occupata la Corte sotto il profilo processuale della  legittimita'
 dell'arresto  in flagranza) alla sottrazione di capo di abbigliamento
 in grande magazzino con
  l'aggravante della violenza sulle cose consistita nella asportazione
 della "piastra" magnetica antifurto mediante piccole  pinze  o  altri
 strumenti   analoghi,  il  cui  possesso,  ricorrendo  le  condizioni
 soggettive ivi previste, e non essendovi un principio di  esecuzione,
 comporta l'assoggettamento alla pena dell'art. 707.
   Essendo  arresto  e  detenzione  species  di  un  unico genus (pena
 detentiva)  con  effetti  sostanzialmente   identici,   senza   voler
 inutilmente  dilungarsi in problematiche ben note, pare al giudicante
 che punire con pena cosi' eccessiva come quella dell'art. 707 c.p. il
 possesso anche di un unico attrezzo) ad es., un cacciavite,  un  paio
 di  forbici,  una  chiave  inglese,  ecc.),  in  se'  non  indice  di
 particolare  pericolosita'  del  soggetto, e non tale da agevolare in
 modo rilevante il compimento di atti delittuosi contro il patrimonio,
 comporti una situazione di disagio in chi e' demandato  ad  applicare
 la  norma,  del  tutto  affine  a  quella  di  cui si e' recentemente
 occupata la Corte costituzionale in materia di oltraggio  a  pubblico
 ufficiale  (sentenza  n.  341/1994),  decisione cui questo giudice si
 richiama anche ai fini del rinvenimento nel sistema  del  trattamento
 sanzionatorio   minimo   (nella   specie:  art.     25  c.p.),  senza
 interferenza nella sfera di discrezionalita' legislativa.
   Anche in materia di art. 707 c.p. a buon diritto  si  puo'  infatti
 parlare  di  vanificazione  del  fine  rieducativo   della pena, e di
 sanzione  penale  manifestamente  eccessiva  rispetto  al   disvalore
 dell'illecito,  essendo stato dalla Corte costituzionale affermato in
 via generale che la finalita' rieducativa della pena non e'  limitata
 alla  sola  fase  della esecuzione ma costituisce "una delle qualita'
 essenziali e generali che caratterizzano la pena  nel  suo  contenuto
 ontologico  e l'accompagnano da quando nasce nell'astratta previsione
 normativa, fino a quando in concreto si estingue", e d'altro lato che
 "il principio  di  proporzionalita'  nel  campo  del  diritto  penale
 equivale a negare
  legittimita'  alle  incriminazioni  che,  anche  se  presumibilmente
 idonee a raggiungere finalita'  statuali  di  prevenzione,  producono
 attraverso   la   pena,   danni   all'individuo   (ai   suoi  diritti
 fondamentali)  ed  alla  societa'  sproporzionatamente  maggiore  dei
 vantaggi  ottenuti  (e da ottenere) da quest'ultima con la tutela dei
 beni o valori offesi dalle predette incriminazioni".